UN DISCRETO DISASTRO

UN DISCRETO DISASTRO

una piccola storia a puntate

capitolo 1:

Il barbiere di Predappio

Non sapevo che sarebbe finita così male, perché, in verità, credevo a quella giornata: era partita bene. La mattina, infatti, avevo mangiato il miglior panino con tonno e fontina della mia vita. Quattro euro, grande come la mia faccia — che è piuttosto larga, devo dire. Non contento, mi ero pure bevuto un bianchino bello fresco. Mi trovavo in un bar nella periferia di Milano: bancone di legno, corrimano d’ottone, pavimenti di marmo verde scuro, una piccola zona tabacchi — il genere di posti che amo. Ai tavolini, una flora piacevole e innocua composta da sciure cotonate alle prese con acque brillanti sgasate, anziani in bretelle che giocavano a ramino, lavoratori in pausa caffè. All’entrata, un portacenere della Cinzano pieno di sigarette fumate a metà — tutte da un sudato cameriere di due metri, con un lungo pelo bianco che gli sbucava dalla narice sinistra.

Era il mio primo panino in Italia dopo quindici anni all’estero, e me lo stavo godendo come se fosse l’ultimo. Accanto a me, due ragazze ridevano guardando TikTok a botte di dieci secondi a video: ora un gattino; ora un parrucchiere; un balletto; una ricetta. Alcuni muratori slavi si stavano prendendo una pausa, fumando una siga con le mani bianche di calce nel dehors. Preso ingiustificatamente bene per questo nuovo capitolo della mia vita, di prima mattina avevo corso per le strade della periferia dove ero ospite da amici. Nonostante l’aria sapesse di copertoni bruciati, tutto quel moto intorno a una fabbrica abbandonata e scassata mi aveva messo fame, e mi ero fermato in quel bar per mangiare prima di andare all’anagrafe in centro.

Lì mi ero visto riflesso nella vetrina di un negozio e avevo notato la mia calvizie insicura: ero infatti calvo e con i capelli lunghi allo stesso tempo. Ero stato così preso dal trasloco da non accorgermi di essermi trasformato in Krusty il Clown. Mi aggiravo inutilmente in un quartiere-ristorante del centro, in cerca di scorci di vita normale: una lampadina, un negozio di lavatrici che non fosse una catena, un tabaccaio, una merceria per i calzini. E soprattutto un barbiere. Non un salone pettinato — per rasarmi ci vogliono sei minuti netti. Volevo un normalissimo barbiere da uomo, magari egiziano o magrebino.

Eccolo lì, “Forbici e Pettine”. Non il barbiere nordafricano che mi ero immaginato — quella figura rassicurante da rasatura rapida e zero chiacchiere— bensì un paonazzo marchigiano dalle pieghe di grasso tra capo e collo: «Mi deve scusare, sto rimettendo a posto il negozio. Si accomodi pure», fece lui un po’ istrionico. «Ci mancherebbe», dissi, già intuendo che mi sarei seduto non tanto sulla poltrona, quanto alla visione del suo docu-fiction. Non so perché i barbieri anziani italiani debbano squadernare tutti i dettagli della loro avventurosa vita. Un archetipo antropologico, quello del barbiere che mitizza il proprio racconto- perennemente sospeso tra realtà e balle da bar. Questo non era da meno: diventato tennista in età pensionabile, aveva vinto tutti i tornei del quartiere, anche in doppio con la moglie «Una bellezza, una campionessa… la terza sorella Williams» Si era fatto da solo e, a suo dire, aveva pure fatto la barba a Craxi una volta «bravo eh, ma mai quanto Silvio, che maschio che era». E naturalmente la parte immobiliare, imprescindibile in queste narrazioni di self-made barbieri milanese: «Ho comprato le case qui a Porta Venezia, dopo anni e anni di lavoro duro», disse. Le case. Già. Plurale

Mentre sciorinava la sua esistenza, con quell’aria testosteronica da dopobarba anni ’80, pensavo alla noia delle vite altrui. Ci convinciamo sempre che gli altri abbiano avuto destini straordinari solo perché li raccontano con sicurezza — che siano veri o inventati, poi, è impossibile dirlo - anche se coi barbieri una risposta l’avrei. E invece, appena gratti la superficie, scopri che tutti annaspiamo nella stessa banalità, soggetti alle stesse dinamiche, identiche in ogni angolo del pianeta: monotone, prevedibili, terribilmente normali.

Le forbici sferragliavano dietro le orecchie: un ronzio metallico, quasi ipnotico. Chiudevo gli occhi — senza occhiali non avevo molto da guardare in giro — e provavo a fingermi assorto, tanto parlava solo lui. «Eh, vado in palestra… sono un uomo tutto d’un pezzo, guarda che muscoli. Mica come sti cazzo di immigrati debosciati che ci rubano i soldi.» Un secondo di silenzio. Aprii gli occhi, sperando di aver capito male. Macché. Avevo capito benissimo. All’inizio abbozzavo — il barbiere pelato aveva pur sempre le forbici al collo, il mio collo — e mi limitavo, da buon piemontese, a un «ehhh», «sarà», «mahhh». Ma lui rilanciò, sempre più convinto, e a quel punto non potevo più tacere. Partii piano, cercando di non dirgli che era un vecchio rincoglionito razzista: «Guardi che io sono stato un immigrato per anni.» Cercavo di spostare il discorso su di me, senza attaccare lui direttamente. «Ho provato sulla pelle gli stereotipi. In Nord America, da italiano, non si fidavano: trovavo lavoro a fatica. In Inghilterra dovevo dimostrare il doppio degli altri.» Fiato sprecato ovviamente, il suo monologo era un fiume in piena.

Provai ancora a ribattere che «tutta l’edilizia a Milano è in mano agli extracomunitari, che il cognome più diffuso in città è Wu, e che ormai tutte le pizzerie buone sono egiziane». Gelo. Solo il fruscio delle forbici che sfoltivano, ostinato. Per lui, nessuno al mondo aveva faticato quanto aveva faticato lui. Gli immigrati rubavano tutto, erano scansafatiche, ingrati: sempre lo stesso disco rotto, una canzone brutta che non finiva mai. Mentre il teatrino andava avanti, pensavo che il paffuto marchigiano fosse solo un vecchio rincitrullito che legge troppi giornali di ultra destra: noioso, privo di autocoscienza, tutto sommato innocuo. Solo spaventato, e con un’evidente mancanza di strumenti cognitivi. 

Ovviamente mi sbagliavo.

“Uè Roccooo!” — sembra assurdo ma le caricature viventi dei milanesi esistono e questo, rimasto in PTSD dopo la morte di Berlusconi, entrò nel negozio con l’entusiasmo di chi negli anni ’80 non aveva la pancia e scopava ancora: “Come vengono bene i lavori!” sparò subito, senza neanche guardarsi intorno. L’André Agassi di Porta Venezia non aspettava altro che un complimento. Gonfiava il petto come se mi stesse servendo una battuta, e intanto raccontava di come avrebbe reso il negozio una meraviglia: una bella tenda parasole, due adesivi di forbici e pettine, e la scritta in vetrina Barbiere da Uomo.

E lì, dal nulla, la macchietta milanese: «Eh, ma perché non ci metti una bella faccia del Duce in vetrina, scusa?» Così. Stop. Senza preavviso. Senza battere ciglio. La mia mascella fece plof, come in un cartone animato. Il barbiere, serissimo: «Eh guarda, ci avevo pensato. A Brescia c’è un collega che ha un busto di Mussolini in vetrina. Bellissimo.» Lì ho capito tre cose. Uno: ormai in Italia le idee di design si prendono da Brescia. Due: la situazione stava sfuggendo di mano. Tre: il barbiere con le forbici all’altezza della mia giugulare era un fascista. A quel punto si ricordarono di me. Li guardai nello specchio, loro guardarono me: sembrava una scena di Sergio Leone senza Morricone. Silenzio totale, fino a che non entrò un cliente: «Buongiorno, si accomodi.» 

Uscito dal negozio un muratore nigeriano martellava l’asfalto in un cantiere per un nuovo grattacielo, e io pensai proprio al suicidio commerciale di mettere un pelato nella vetrina di un barbiere.